“Che tipo di mamma sei? Ti senti un allenatore emotivo per tuo figlio?”
A questa domanda a bruciapelo vi confesso sono entrata letteralmente nel panico. A farmela una collega pedagogista che conosce la mia passione per le teorie di Goleman e Gottman sull’intelligenza emotiva. L’occasione era stata il mio sfogo in un momento che mi vedeva impegnata nei primi capricci del mio bambino.
Per anni, prima di diventare mamma, ho tenuto corsi sulle emozioni a genitori, ad insegnanti ed anche a bambini. Il tema delle emozioni e della loro gestione non mi era quindi nuovo, ma dover rispondere a quella domanda mi aveva messo in crisi perché mi ero resa conto che il problema dei capricci dipendeva anche dalla mia difficoltà a gestire quello che provavo.
Mi rivedevo arrabbiata davanti al comportamento di mio figlio e impotente davanti alla sua collera. Se gestire i momenti di gioia o le sue paure mi risultava facile, le espressioni di rabbia ed aggressività erano per me un vero cruccio che mi bloccava e che mi impediva di affrontare la situazione al meglio.
Sono partita allora da quella domanda per lavorare prima di tutto su di me: avevo bisogno di capire perché non riuscivo a gestire le emozioni che mi suscitavano i suoi comportamenti. Solo in questo modo avrei potuto affrontare il tutto.
Goleman definisce l’intelligenza emotiva come “la capacità di riconoscere e gestire le emozioni proprie ed altrui e di saperle indirizzare nella direzione più favorevole e vantaggiosa”.
Non mi rimaneva altro che lavorare sulla mia intelligenza emotiva.
Dovevo riconoscere, per prima cosa, le mie emozioni per potere poi gestire me e lui. Ho dato loro subito un nome: ero frustrata perché mi sentivo inadeguata ad affrontare questi comportamenti; ero irritata dagli sguardi di disapprovazione degli altri nei confronti di mio figlio; ero però anche fiduciosa di poter trovare una strada per far fronte a tutto ciò.
Ora non mi rimaneva che capire quali emozioni stavano dietro ai suoi comportamenti: rabbia, ma anche insoddisfazione per non riuscire ad ottenere quello che voleva e per non sentirsi capito da me; a volte subentrava anche la noia che poi sfociava inevitabilmente in scenate.
Alfabetizzazione emotiva
Dare un nome alle proprie emozioni vuol dire prima di tutto saperle riconoscere nelle loro varie sfumature. Questa capacità si chiama alfabetizzazione emotiva e può essere stimolata fin da piccoli.
Riconoscere le emozioni dell’altro, cioè essere empatici, è un’abilità che deve essere anch’essa allenata, ma che compare e che si manifesta solo con la crescita quindi non la potevo di certo pretendere in mio figlio che era ancora molto piccolo.
Una volta riconosciute le mie e le sue emozioni, gestire la situazione è diventato più semplice:in occasione di capricci o momenti di rabbia, ho cercato prima di tutto di tenere sotto controllo la mia frustrazione e la mia irritazione e mi sono concentrata sui sentimenti del mio bambino, gestendoli per quel che potevo. Ho dovuto naturalmente escogitare azioni per controllare o prevenire i suoi capricci: a volte sono risultate efficaci, a volte inadeguate, alcune volte inutili. Aver riconosciuto le emozioni che stavano dietro ai nostri comportamenti e aver dato loro un nome, ha avuto per me però molta importanza: ha fatto diminuire il mio senso di impotenza e pian piano mi ha fatto trovare il modo migliore per affrontare i suoi comportamenti.
A quel punto, ho deciso di intraprendere un percorso ad hoc con mio figlio sulle emozioni e la loro gestione. Per prima cosa era necessario insegnargli a nominarle e a riconoscerle. Ho creato dei giochi specifici per la sua età, prendendoli a prestito dalle numerose attività già esistenti: sono così nati il memory e il domino delle emozioni, le filastrocche, le palette e l’orologio per dire come ci si sente.
Come dicevo però non è sufficiente dar loro un nome, bisogna anche imparare a mettersi nei panni degli altri. Una sorta di allenamento all’empatia. Per far ciò bisogna abituarsi a parlare di sentimenti, a sentirsi liberi di dire cosa si prova e trovare il tempo e la voglia di ascoltare quelli degli altri. Non c’è miglior modo per farlo che essere noi adulti i primi a mettersi in gioco.
Ogni occasione è buona: un libro, un film, un’esperienza comune, una canzone, un ricordo.Naturalmente la stessa attenzione va posta sia per le emozioni “belle” che per quelle “brutte”, ricordandosi che le emozioni non hanno di per sé un valore e che sono i comportamenti ad essere adeguati o inadeguati e non i sentimenti: anche la rabbia ha un suo perché, ci avvisa che una situazione non va bene e sta a noi convogliare questa energia al meglio.
Il nostro allenamento emotivo da quella fatidica domanda non si è mai interrotto e a distanza di anni posso dire che è stato e risulta tuttora molto utile sia a noi genitori che al nostro bambino.
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