Non si può diventare persone colte senza fatica
Non si può diventare persone colte senza fatica. L’ho imparato da Grazia Gotti alla Fiera del Libro per Bambini di Bologna, allo stand Giunti, ma questo insegnamento è stato come mordere una madeleine di Proust: mi ha riportato alla memoria il Liceo, quella freschezza che possedevo quando discutevo di Heidegger o di Lucrezio, quando raccontavo la filosofia del Blaue Reiter o, appena più tardi, all’Università, scoprivo che persino Nietszche aveva un’idea pedagogica.
In quell’età in cui parlare di esistenzialismo è perfettamente normale, così come disinteressarsi totalmente della praticità della vita – vita che è soltanto un respiro culturale, scrivere, impregnarsi di libri e trattati, accendersi nelle discussioni su Giorgio Caproni, scoprire di amare alla follia Boris Vian, perché sul serio, seriamente: Nemmeno io vorrei crepare, Vian.
Ho studiato per imparare. E’ seducente studiare per prendere bei voti, ma io ho studiato per imparare. Soprattutto all’Università – quell’Università che non ho finito e che come dice Grazia (io do del tu a tutti quelli che amo, Grazia, Citando Prévert) mi ha persa per strada, perché avevo troppa sete di sapere, e troppi pochi stimoli intorno.
E a me il libro di Grazia Gotti, Ne ho vedute tante da raccontar, Ed. Giunti, ha fatto lo stesso effetto dei racconti di Des Esseintes in À rebours: e naturalmente qui non c’è il compiacimento nullo di una nevrosi – tutt’altro direi, forse la denuncia di una nevrosi collettiva! -; io questo libro lo leggo come leggerei la mia prima enciclopedia, sottolineando, e scarabocchiando, e facendo una lista di autori che devo leggere, che devo ritrovare – dove avrò messo il mio Munari? – e di libri che devo possedere, devo, perché verrò consumata dalla fame, se non li avrò letti tutti con la voracità e l’avidità di chi vuole tornare ad inebriarsi di sapere.
E, fantastico!, sono tutti autori per bambini. Io che ho cominciato in prima media con Fontamara e poi mi sono persa nei Sentieri dei nidi di ragno, o nei capelli sporchi e arruffati di Rosso Malpelo. Io che non ho mai più potuto leggere un libro dopo Barney (se cercate Barney non è qui: questo era scritto in tutte le recensioni dei libri successivi di Richler, evidentemente da altri orfani di Barney, come me), io che ho bevuto Palahniuk come berrei un veleno a piccole dosi, per renderlo la mia medicina.
Leggere è una liturgia, sin da piccoli: nenie, ripetizioni, illustrazioni che diventano rituali.
Ma poi, quello che mi serve è ricordare che non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice. E io non sono mai stata così felice (sì, lo sono stata, lo ammetto, ma non così in quel modo) comequando mi allontanavo dal mondo e mi immergevo senza respirare, senza ossigeno e senza polmoni, dentro un nuovo libro, nel suo mondo, nella vita dei suoi personaggi, costruendo la mia essenza dentro l’essenza di un libro.
Ancora alla ricerca del rifugio sicuro della lettura.
E sottolineo le parole di Grazia Gotti, i suoi consigli, come se avessi tra le mani il catalogo della mia infanzia: io questo lo devo leggere, ho bisogno di quelle illustrazioni, devo avere una lista di libri da bambina, da leggere adesso. Il mio album d’infanzia, a 40 anni.
Ci servono contenuti che innalzino la certezza e grandezza culturale dei bambini.
Per me il succo della Bologna Book Fair è questo, e scoprirlo adesso mi fa male. Mi provoca dolore scoprire quanto tempo ho perso, quanto il mio modo di parlare e di scrivere sia cambiato dal Liceo, quanto io sia diventata fragile nel mio vocabolario, pieno di fare e dire e scarno di parole belle, bellissime.
Il dolore di ricordare che il mio desiderio di bambina era leggere tutti i libri del mondo. Ma poi faceva troppa fatica, e non li ho letti, tutti i libri del mondo.
L’ho scoperto solo adesso, che non si può diventare persone colte senza fatica. Ancora in tempo per crescere con i libri.
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