mercoledì 30 settembre 2015

DONNE E LAVORO - UN ARTICOLO SEGNALATO




Le difficoltà di bilanciamento fra lavoro e vita familiare continuano a penalizzare l’occupazione femminile. Il governo ha fatto bene a emanare un decreto per favorirne la conciliazione. Ma non ha attuato le misure che avrebbero avuto gli effetti più rilevanti. Serve un intervento organico.

Le scelte delle donne

La promozione del lavoro femminile, ricondotta di norma a istanze di eguaglianza, è auspicabile anche per motivi di efficienza. Se la diversity giova alla produttività aziendale, i paesi in cui il differenziale di genere è inferiore registrano risultati economici migliori. In Italia, il divario di genere in termini occupazionali è tra i più alti in Europa (Eurostat): tra i motivi, la maternità ha un peso rilevante (Istat), soprattutto in ragione del difficilebilanciamento tra attività professionale e impegni familiari.
La “Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri o dei lavoratori padri”, redatta dalla direzione generale per l’attività ispettiva del ministero del Lavoro, conferma che nel 2014 l’85 per cento delle dimissioni o risoluzioni consensuali ha riguardato le madri, a dimostrazione del fatto che “la gestione delle responsabilità familiari e di crescita dei figli, prerogativa ancora prevalentemente femminile, continua ad avere riflessi sulla partecipazione attiva delle donne al mercato del lavoro”. Il 33 per cento delle donne ha lasciato l’impiego per “incompatibilità tra lavoro e cura della prole”: ciò a causa della “assenza di parenti di supporto”, del “mancato accoglimento al nido”, della “elevata incidenza dei costi di assistenza al neonato”. Considerata l’importanza della “conciliazione” – sia in termini di gender mainstreaming che di potenziale dicrescita economica nazionale – il governo ha opportunamente affrontato il tema del work life balance (decreto legislativo n. 80/2015), attuando la legge delega n. 183/2014 (il cosiddettoJobs act), al fine di evitare “che le donne debbano essere costrette a scegliere fra avere dei figli oppure lavorare“.

I difetti del congedo parentale

Il decreto legislativo. n. 80/2015, modificando il testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (Dlgs. n. 151/2001), introduce misure a carattere sperimentale, la cui prosecuzione oltre il 2015 è condizionata all’individuazione di adeguate coperture finanziarie: è dubbio, tuttavia, che in pochi mesi possano essere testate sufficientemente.
Ma le perplessità maggiori riguardano la circostanza che, tra i principi indicati dalla legge delega, il governo ha lasciato inattuati proprio quelli riconosciuti come i più idonei a favorire la conciliazione, quali l’integrazione dell’offerta di servizi per le cure parentali o l’introduzione di un credito di imposta per le madri lavoratrici. È intervenuto, invece, sui congedi parentali, che ora possono essere richiesti in un arco temporale più ampio e fruiti con modalità flessibili.
Analisi relative all’impatto di diversi strumenti sull’occupazione femminile (Oecd) riscontrano che i congedi, se di lunga durata, possono causare la marginalizzazione delle donne, nuocere alle loro competenze professionali, risultare incompatibili con posizioni di responsabilità o manageriali, nonché peggiorare le disparità salariali. Invece, ladisponibilità di strutture di assistenza all’infanzia ha un peso decisivo sulla scelta di tornare a lavorare dopo il parto (oltre a incidere positivamente sui tassi di natalità, tema moltoattuale per l’Italia), specie in presenza di una buona flessibilità oraria. Anche un credito di imposta atto a coprire una parte dei costi sostenuti per la cura dei figli e dei familiari dipendenti può funzionare quale incentivo all’offerta di lavoro femminile, facendo emergere al contempo situazioni di impiego sommerso.
Prima di intervenire sui congedi parentali, escludendo altre misure, sarebbe stato necessario che il regolatore ne valutasse l’efficacia, considerando in particolare che in Italia sono scarsamente remunerati e vengono usati soprattutto dalle lavoratrici (la percentuale degli uomini che ne fruiscono tende ad aumentare, ma resta comunque molto bassa; Inps). Ad esempio, la previsione di incentivi idonei a incrementarne l’utilizzo da parte dei padri, favorendo una più equa ripartizione delle incombenze genitoriali, avrebbe reso più incisivo l’intervento nel limitare l’abbandono dell’impiego da parte delle madri.
Il regolatore avrebbe anche dovuto considerare altri elementi rilevanti: ad esempio, che la copertura nazionale dei servizi per l’infanzia (11,8 per cento, secondo l’Istat) è inferiore al target del 33 per cento fissato dalla Strategia di Lisbona ed è stata oggetto di apposita raccomandazione da parte della Commissione UE; che la perdita di vantaggi legati alle entrate familiari (l’esenzione da ticket sanitari o l’accesso alle case popolari, per esempio)scoraggia l’occupazione del percipiente il reddito inferiore, di solito la donna; che i sussidi legati alla sola natalità (quali il “bonus bebè”), a differenza di quelli espressamente connessi all’acquisto di servizi per la cura dei figli, hanno effetti “incerti e poco significativi” o addirittura negativi, nello stimolare il rientro al lavoro dopo il parto.
La relazione illustrativa del Dlgs n. 80/2015 dichiara, forse con eccesso di ottimismo, che il decreto ha “una impostazione minimale e settoriale, ma efficace”. Serve realismo, invece, per riconoscere che se si continua a intervenire in modo saltuario e non mirato – anziché mediante un complesso coerente di misure complementari, l’impatto delle quali sia valutato preventivamente -, una migliore conciliazione fra vita e attività professionale e, quindi, un rilevante aumento della partecipazione femminile al mondo del lavoro, resterà soltanto un mero auspicio.



* Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono l’istituzione per cui lavora

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